In una calda domenica pomeriggio a Parigi, in una sala cinematografica gremita, scoppia un applauso fragoroso mentre scorrono i titoli di coda di un film molto particolare.
Non si tratta di un blockbuster hollywoodiano, né di una commedia francese da botteghino, ma del biopic Fanon, dedicato alla figura di Frantz Fanon, psichiatra e intellettuale martinicano, noto per il suo impegno anticoloniale e per il sostegno alla lotta per l’indipendenza algerina.
Diretto da Jean-Claude Barny, originario della Guadalupa, il film si concentra sul periodo trascorso da Fanon in Algeria, offrendo una narrazione rara e potente in un panorama cinematografico francese che per decenni ha evitato di confrontarsi apertamente con la propria eredità coloniale.
Una nuova generazione di registi riscrive il cinema francese
Il cinema francese sembra finalmente pronto a confrontarsi con una parte rimossa della sua storia. A 130 anni dalla nascita del grande schermo, una nuova generazione di registi afrodiscendenti e provenienti dai territori d’oltremare sta emergendo per raccontare storie finora ignorate o marginalizzate.
Il ricercatore Régis Dubois sottolinea come per anni non ci siano stati registi neri in Francia, fatta eccezione per pionieri come Euzhan Palcy e Christian Lara. Oggi, registi e produttori come Sébastien Onomo stanno contribuendo a colmare questo vuoto, offrendo nuove prospettive e dando voce a comunità storicamente escluse dal racconto cinematografico nazionale.
Successo al botteghino per Fanon: il pubblico c’è
Il successo di Fanon al box office testimonia l’interesse del pubblico per queste narrazioni: oltre 23.000 biglietti venduti nella prima settimana, con una distribuzione che è passata rapidamente da 70 a 107 cinema in tutto il paese. Onomo, produttore del film, ha evidenziato l’importanza di vedere queste storie rappresentate sul grande schermo: “Ogni film che produciamo è una risposta a un vuoto. Mi mancavano queste storie quando ero giovane”. Il mercato sembra rispondere positivamente: il cinema che affronta colonialismo e schiavitù non solo educa, ma vende anche.
Dal colonialismo alla schiavitù: una narrazione che cambia
Negli ultimi anni, anche altri film hanno contribuito a rompere il silenzio sulle ferite coloniali. Il documentario Dahomey di Mati Diop, sul ritorno dei tesori reali al Benin, ha vinto l’Orso d’Oro alla Berlinale 2024.
Il film No Chains No Masters di Simon Moutaïrou, incentrato sulla fuga di schiavi a Mauritius, è stato proiettato in molte scuole. Film come Father & Soldier, con Omar Sy, hanno portato alla ribalta le storie dei soldati senegalesi nelle guerre francesi. Un movimento culturale che non solo recupera memoria, ma ridisegna l’identità collettiva.
Colmare un vuoto storico: il cinema francese sfida i propri tabù
Per decenni, colonialismo e schiavitù sono stati temi quasi completamente assenti nel cinema francese.
Tra il 2004 e il 2023, solo un lungometraggio ha affrontato esplicitamente la schiavitù: la commedia Case Départ. Il motivo? Secondo Dubois, la narrazione nazionale francese si fonda sull’Illuminismo e sul motto “Liberté, Égalité, Fraternité”, rendendo difficile integrare nel discorso pubblico una storia fatta anche di violenza coloniale.
Eppure, come dimostrano le cinematografie britanniche e statunitensi – pur non esenti da critiche – confrontarsi con il passato è un passaggio essenziale per evolvere come società.
Una nuova narrazione postcoloniale prende forma
A differenza di pellicole statunitensi che spesso adottano il punto di vista del “salvatore bianco”, i nuovi film francesi offrono prospettive radicalmente diverse.
In No Chains No Masters, i protagonisti – Massamba e sua figlia Mati – non sono vittime passive, ma agenti della propria liberazione. La loro cultura viene celebrata, la narrazione restituita alle voci di chi l’ha vissuta. E non finisce qui: è previsto per quest’anno un film dedicato a Furcy Madeleine, lo schiavo che fece causa al suo padrone. La rivoluzione culturale è in corso, e sembra destinata a durare.
Ma parlare semplicemente del passato non è una condizione sufficiente per fare i conti con il passato. I film britannici che affrontano l’impero coloniale sono numerosi, ma spesso assumono il punto di vista del colonizzatore.
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